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Evaristo Fusar

La Francia degli anni sessanta

 

Realizzato da

AMBASSADE DE LA REPUBLIQUE FRANÇAISE EN ITALIE - BUREAU LINGUISTIQUE

 

Pubblicato da

LE MONNIER / LAROUSSE

 

Testo critico di GIUSEPPE TURRONI

Intervista di GERMANA GALLI

 

formato: 29,5x21 cm

64 pagine, 50 fotografie in bianco/nero

La verità innanzitutto

Nella seconda metà degli Anni Cinquanta, lo sguardo opaco e crudele dello schermo televisivo inizia a consumare, attraverso il suo lento, felpato, inesorabile anche se involontario processo di banalizzazione del reale, i vecchi valori delle mitologie spettacolari. L'occhio dello spettatore diviene, di conseguenza, più cinico e meno esigente. Più cinico, perché non sa e non vuole nutrirsi di illusioni, perlomeno di quelle già impartite alla sua sensibilità e alla sua immaginazione; meno esigente, perché pretende ormai una diversa forma per i suoi sogni, una forma che sappia essere grigia e usuale, pur conservando la sottile magia e la subdola malia di segni perentori e provocanti. Il cinema corre ai ripari.

Jean Gabin - fotografia di Evaristo Fusar © fusarvideo.it

A Hollywood si approntano più sfarzosi apparati tecnologici. Il Cinemascope, il Cinerama, il 3D intendono affermare che la televisione non potrà mai arrivare a tanto, sul piano dello spettacolo. Eppure, lo spettatore innalza subito alla statura di divi presentatori dal fascino più che modesto, dall'eloquio non travolgente, dal sorriso melenso e dallo sguardo tutt'altro che magnetico, Per tutta risposta, il cinema ricorre alle antiche strategie: il lancio di nuovi divi. Sempre a Hollywood, Marilyn Monroe, Marlon Brando, Montgomery Clift, James Dean offrono aggiornate problematiche esistenziali, accanto a un talento innegabile e a uno stile di vita fuori della norma, così come è stato sempre richiesto a ogni personaggio carismatico del mondo della celluloide.

Brigitte Bardot - fotografia di Evaristo Fusar © fusarvideo.it

E la Francia rivela le grazie sensuali di Brigitte Bardot, alla quale non si chiede altro che di essere se stessa: libera, spregiudicata, tenera e capricciosa, fragrante e flagrante, unica e irripetibile come un fiore di campo, nella sua freschezza che non pare contaminata da alcuna tattica pubblicitaria. Invece anche la Bardot è un "prodotto", che va di pari passo coi tempi che mutano, che travolgono emozioni e ricordi, nostalgie e memorie. Solo che anche la Bardot, come la Monroe e Brando, metterà nel proprio personaggio quel tanto in più di invenzione personale, di intelligenza inconfondibile, di deliziosa civetteria, di raffinata malizia, e soprattutto di vaporosa imprevedibilità e di soffice ostinazione, in grado di farla assurgere al ruolo autentico di diva destinata a resistere. Il "segno" della Bardot, che all'inizio potrebbe apparire casuale e improvvisato, si fa via via, grazie anche al contributo di registi, soggettisti, sceneggiatori, costumisti e fotografi, più deciso, consapevole ed emblematico: mentale, oltre che fisico. Ed è questo che il pubblico, alla soglia degli Anni Sessanta, esige: la profanazione, non eccessiva, non eccentrica, ma cauta e laconica, di antichi codici linguistici, antropologici e mitologici. Come ha scritto acutamente Edgar Morin nel suo Les stars (Editions du Seuil, 1957), proprio in questo periodo "i divi si umanizzano, diventano nuovi mediatori tra il mondo fantastico dei sogni e la vita di tutti i giorni".

Jacques Anquetil - fotografia di Evaristo Fusar © fusarvideo.it

I divi non sono soltanto quelli del cinema, ma anche i campioni dello sport, i personaggi dell'alta moda, della letteratura e dell'arte, della politica e di un costume sempre più permissivo. Nota ancora Morin: "La mitologia del divismo si situa in una zona mista e confusa, tra fede e divertimento. La religione dei divi si potrebbe definire una religione eternamente allo stato embrionale, eternamente incompiuta. In altre parole, il fenomeno del divismo è a un tempo estetico e magico-religioso, senza mai essere, se non al limite estremo, 1'uno e l'altro completamente". In questo morbido e fluttuante dualismo, tra queste sfumate ambiguità, il fotografo, vale a dire il testimone più diretto e, almeno nell'opinione corrente, più oggettivo del nostro tempo, registra una realtà in continuo mutamento, incostante, labile, volatile, una realtà che appaga i sogni e le speranze dell'immaginario collettivo. L'obiettivo del fotografo deve essere curioso e sempre a caccia di notizie inedite e sensazionali, di volti che contano, di segni e segnali che denotano avventure, straordinari incontri, volubili o tenaci accidenti, percorsi fantasiosi nel territorio dell'amore e della felicità, della fedeltà e del disinganno.

Charles De Gaulle - fotografia di Evaristo Fusar © fusarvideo.it

La cronaca nera può diventare, con lui, rosa, e viceversa. Una piccola "stella" potrebbe con lui, specie se fotografata sulla Croisette durante il festival del cinema, trasformarsi in breve tempo in una sfolgorante star. Tutto pare possibile: al fotografo non mancano iniziativa, decisione, senso dell'istantanea, un certo garbo nella cura dell'inquadratura, nella plasticità volumetrica della composizione, nella distribuzione della luce, anche se tutto questo è inevitabilmente regolato dalla fretta, dalla corsa, spesso affannosa, verso l'effetto giornalistico. Molte volte, il fascino del personaggio, attore o campione di varia umanità, viene "prestato" dall'occhio del fotografo. Egli può aggiungere molto, e togliere parecchio, ai protagonisti della cronaca mondana, culturale, politica. In certuni, questo processo va a scapito della moralità del ritratto fotografico. Già nel 1929 Paul Valery scriveva: "E' chiaro che il Bene e il Bello sono passati di moda. Quanto al Vero, la fotografia ne ha mostrato la natura e i limiti: la registrazione dei fenomeni con un puro effetto dei medesimi, con l'esigenza del meno d'Uomo possibile, questo è il nostro vero". Tuttavia, osservava Laszlo Moholy-Nagy, "la natura, vista attraverso la macchina fotografica, è diversa dalla natura vista dall'occhio umano. La macchina fotografica influenza la nostra maniera di vedere e crea una nuova visione". Del resto, puntualizza Henry Bergson, "a che cosa mira l'arte, se non a mostrarci, nella natura e nello spirito, le cose che non colpirebbero esplicitamente i nostri sensi e la nostra coscienza?". Il fotografo, anche quello più dichiaratamente superficiale, finisce dunque col darci, a volte addirittura suo malgrado, un altro reale, un'altra dimensione espressiva.

Albert Camus - fotografia di Evaristo Fusar © fusarvideo.it

Evaristo Fusar, uno dei più noti fotoreporter italiani, "da trent'anni va per il mondo", scriveva Enzo Biagi nel 1978 presentando in catalogo una sua mostra presso la Permanente di Milano, "e ha narrato la cronaca pettegola e drammatica, solenne e miserabile del nostro tempo... C'e la Francia di Brigitte Bardot e la Spagna di Franco, i romanzi del rotocalco e la tragedia della politica. Un grosso albo delle figure e figurine che hanno animato le nostre vicende. Fusar crede nel suo lavoro, ma senza l'alterigia dei nuovi arrivati, con l'umiltà dell'artigiano: prima cerca di capire, poi di rappresentare. Non scatta molto, scatta giusto. Ha imparato la lezione del fotogramma che vale cento parole, e sa che non bisogna sciuparlo con troppi aggettivi. Di un personaggio coglie un piccolo segreto, di una situazione il senso". Pare aver tempo da perdere, invece il tempo anche per lui e moneta preziosa. Non sembra scatenato e trafelato. Sa aspettare il momento buono, in quella Francia un po' ovattata e ancora sognante, per scattare le sue prelibate istantanee, dedicate al mondo del cinema e del costume nei tardi Anni Cinquanta.

I Brutos - fotografia di Evaristo Fusar © fusarvideo.it

Non teme il confronto con le immagini di fotografi spiritosi, amabili e istruiti quali, e con Fusar si devono fare per forza grandi nomi, Brassaï o Ronis. Il gusto dell'imprevisto non sembra mai in lui deciso all'ultimo istante. Pertanto i suoi ritratti "restano", perché hanno trovato un accordo sincero e felice, pacato e piano, tra il mito e la vita, tra le illusioni e le durezze della realtà, tra la verità e la poesia. Nel tempio profanato, in cui giacciono alla rinfusa le suppellettili di miti romantici, addirittura di estrazione ottocentesca, e di moderne rivelazioni iperrealiste e pop, Fusar inventa una organizzazione di forme, che mostrano con limpida evidenza e con tratti brillanti e decisi la sapienza del ritratto fotografico, come succede con Jean Gabin, Michèle Morgan, Marcel Camus, Roger Peyrefitte, Françoise Sagan, Jeanne Moreau, Fernandel, Jean Renoir, René Clair e con tanti altri, senza però forzature pittoricistiche e sterilmente estetizzanti.

Fernandel e Annamaria Pierangeli - fotografia di Evaristo Fusar © fusarvideo.it

Intorno, la folla parigina, una folla che, al pari della minuziosa punteggiatura di una frase ricca di sostantivi e povera di aggettivi, fa da succoso contrappunto ai volti, ai sorrisi, ai gesti, agli atteggiamenti, non necessariamente "prestati" dal fotografo, dei personaggi importanti. Fusar sa trovare le materie espressive e i chiari elementi strutturali di questa mitologia attraverso un tocco gentile, mai pretestuoso, mediante tagli freschi e immediati che ci parlano di una sua matrice estetica di ordine impressionista, intesa al vibrare delle luci, a folgoranti apparizioni, a sfumati incantevoli, al brillio di una situazione imprevista, alle angolazioni più stimolanti, alla nascita di un sogno più o meno possibile, come capita dinnanzi a tante "stelle" del cinema francese e al trionfo di quella condizione della natura e dello spirito che il pubblico di allora, nonostante certi mutamenti nel gusto e nel costume, soprattutto voleva: l'amore. Alain Delon copre col suo cappotto le spalle nude della bella Romy Schneider. Tante ragazze, non soltanto francesi, avranno sospirato davanti allo sguardo di Alain e al sorriso radioso di Romy-Sissi. Ma 1'amore durerà poco. L'illusione, la speranza, il sentimento pulsante della vita che cerca sempre un "altrove" sono tuttavia sempre in tutti noi, personaggi sconosciuti o celebri protagonisti delle cronache e della storia.

Les Halles - fotografia di Evaristo Fusar © fusarvideo.it

Fusar coglie questa speranza e questa urgenza vitale. Ma non forza mai i termini formali e le valenze concettuali ed espressive della propria visione. Semmai, aiuta a vivere sempre più liberamente, sempre più teneramente, sempre più lievemente, questi miti, di celluloide o di cartapesta, di verità e di finzione, di magia e di rozza banalità. Li aiuta a trovare una forma limpida ed essenziale, senza prestar loro alcun orpello decorativo e alcuna sovrastruttura edonistica. E questo è il dono più bello e cantante che un inventore di immagini fotografiche possa fare alle proprie creature. In quegli anni, alla vigilia del così detto "boom" economico, il pubblico ama della fotografia la parte più ottimistica e rasserenante. Al di là della profanazione dei miti degli anni Trenta e Quaranta, dietro 1'orizzonte che ha visto spegnersi gli ultimi bagliori di un tramonto incandescente, sta pur sempre quel margine di speranza vitale, nemica del cinismo, della brutalità e della fretta, che induce a sognare ancora sogni delicati, Straordinariamente, Evaristo Fusar sa tuffarsi nella cronaca mondana dei festival, delle sfilate di moda, delle conferenze stampa, degli ammiccamenti mondani, con uno spirito lieve, non frastornato da accanimenti documentaristici e sociali o da stridori espressionisti, ma anzi ingentilito da quel suo suadente impressionismo, fatto di tocchi rapidi, di pennellate saettanti, di tratteggi in punta di penna, mai però superficiali e risaputi. I suoi ritratti hanno perciò la compostezza del vero ritratto, anche di quello pittorico; le inquadrature non sono mai sbagliate, il senso della composizione è vivo e palpitante, tutto insomma concorre, sostanza e forma, concetto e idea, pretesto e stile, a dare alle sue immagini, che poi potranno scrivere una piccola e amabile storia della Francia di quel tempo, un rilievo espressivo armonioso e lucido, squillante e ludico, sensuale e insieme sognato mediante metafore non barocche, sciolte ellissi, ritmi lanciati nel vento delle speranze più umane e dei sorrisi meno stereotipati e falsi. Tra la verità e la poesia, Fusar opta per la prima. Ma ogni autore va pur sempre al di là di se stesso, delle proprie intenzioni e delle proprie ideologie, ed ecco che una grazia poetica dal vivace respiro aleggia su queste figure e figurine, su questi rappresentanti di un'umanità che sa di correre, come tutti noi del resto, verso una fine sicura, ma che sa, al tempo stesso, se non gioire, perlomeno rallegrarsi, non stoltamente, non in modi di puro effetto meccanico, non in forme di drastico materiali-smo, dell'attimo che scorre, che è passato e che non sarà più, e che è stato fermato una volta e per sempre dall'obiettivo di un fotografo sincero, premuroso e soprattutto onesto, onesto verso se stesso e verso gli altri.

Primo Carnera - fotografia di Evaristo Fusar © fusarvideo.it

Perciò questi ritratti, questi volti della Francia ai confini di una stagione che vede la morte di vecchie strutture mitologiche e intravede la nascita di diverse forme della visione e dunque di altri linguaggi e di altri miti, non sono guidati dalla durezza di cuore e dal cinismo d'intelletto che compaiono in molti lavori giornalistici di quell'epoca. Essi trovano il punto giusto, tra il simulacro di vuote illusioni e di realistiche disillusioni, tra la morte del sogno, insomma, e la vita della speranza. Questa posizione mediata e tollerante va attribuita alla moralità professionale di Fusar, un autore che non esagera mai, che non tira le cose per i capelli, che non affida a loro segni eccessivi, sgangherati e ridicoli, troppo accattivanti. Tutto ciò va posto sotto il segno di una misura che, nell'atto stesso di allontanarsi e di distaccarsi dalle passioni e dalle declamazioni del momento, si avvicina assiduamente al cuore della vita con un trasporto sempre sincero, che oggi può, se non stupire, certamente lasciare ammirati.

Giuseppe Turroni

Il presente volume è stato tratto dalla Mostra fotografica

Evaristo Fusar

La Francia degli anni sessanta

 

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